Antifascisti liberali

Gli antifascisti liberali di oggi tendono a condannare, del fascismo, le leggi razziali e l’entrata in guerra contro le potenze liberali: l’Inghilterra, la Francia. Tendono a giudicare con severa indulgenza o a criticare per inefficienza la soppressione delle libertà individuali, in particolare la libertà d’espressione. Ma non citano, mai, tra i crimini del fascismo, i crimini originali dello squadrismo.
Come i fascisti di ieri e di oggi, e come la maggior parte dei liberali di ieri, i liberali di oggi tendono a considerare le azioni squadriste come delle scampagnate tra amici, delle gite avventurose sul cassone del camion, con canti e bevute.
Ma le violenze dello squadrismo fascista furono crimini. Crimini organizzati. Crimini sistematici.
Sempre con il supporto di un plotone di carabinieri al seguito (i carabinieri dello Stato Liberale), pronti a intervenire dopo le violenze dei fascisti per reprimere le vittime sopravvissute, arrestarle e incarcerarle. Con l’accusa, poi normalmente confermata da giudici liberali, di aver commesso i torti che avevano invece subito.
Quando si parla di bastonature e di purghe, non si parla per metafore.
Le bastonature non erano delle rappresentazioni bonarie come tra Arlecchino e Pulcinella. Le bastonature consistevano nel circondare la vittima, sempre in proporzione minima di quindici contro uno, e massacrarla di botte: molte vittime morivano subito, altri morivano dopo. Ai sopravvissuti pensavano i carabinieri.
Le purghe consistevano letteralmente nella somministrazione forzata, dopo aver massacrato di botte la vittima, di un purgante per cavalli, l’olio di ricino, in dosi da cavallo, il che provocava sia l’umiliazione della vittima, che veniva trascinata in pubblico lordata dei propri escrementi e del proprio sangue, sia conseguenze sanitarie devastanti per il suo organismo.
Le azioni squadriste, le “spedizioni punitive” non furono dirette contro le fabbriche occupate nel “biennio rosso”: sia per la codardia dei fascisti, che non osarono mai affrontare gli operai organizzati, sia perché i padroni delle fabbriche, tutti liberali, non volevano mettere a rischio le loro macchine. Le azioni squadriste, le “spedizioni punitive” furono dirette non certo contro “il pericolo bolscevico”, ma contro le istituzioni del proletariato, quelle faticosamente costruite dai primi anni del Novecento fino alla Grande Guerra attraverso le lotte sindacali e l’azione riformista del Partito Socialista di Turati e Kuliscioff. D’altronde la polemica di nazionalisti e fascisti contro Giolitti proprio questo gli rimproverava: di aver trattato con i rappresentanti del proletariato.
Le azioni squadriste, le “spedizioni punitive” furono dirette contro le cooperative agricole, le associazioni di mutuo soccorso, le case del popolo, sempre identificando un individuo, un dirigente di cooperativa, un capo sindacale dei braccianti, la cui casa veniva circondata di notte, spesso incendiata, la cui famiglia veniva minacciata di morte; la vittima veniva rapita, picchiata, torturata e spesso uccisa o lasciata morire in un fosso o legata all’albero dove era stata torturata. Passavano poi i carabinieri della monarchia liberale ad arrestare i superstiti. E la formidabile giustizia liberale si scatenava su di loro.
La violenza sistematica delle azioni squadriste è documentata nei libri di storia (ad esempio “Nascita e avvento del fascismo” di Angelo Tasca). Ma oggi non viene mai ricordata dagli antifascisti liberali quando criticano il fascismo.
E non è un caso.
Il fatto è che le violenze squadriste sono viste con molta indulgenza dai liberali.
I liberali sono sempre convinti di poter manipolare i fascisti, e infatti li manipolano, salvo poi farseli sfuggire di mano, e lamentarsi quando i loro cagnacci mordono anche loro.
Le violenze dello squadrismo fascista contraddicono, sì, i principi del liberalismo: il liberalismo ideale. Ma non ne contraddicono la pratica: sono del tutto coerenti con il liberalismo reale.
Il liberalismo dell’età moderna è fondato sulla violenza: i crimini di massa del colonialismo, il razzismo, la schiavitù e il sistema dei coolies, lo sfruttamento del lavoro e quello delle risorse, espropriate e riappropriate per mezzo dello sterminio e della guerra. Il liberalismo novecentesco è fondato, inoltre, sull’apartheid, sul segregazionismo legalizzato. Il liberalismo odierno si chiama neoliberismo. È l’ideologia di entrambe le componenti politiche principali dell’attualità, sia il “liberalismo” dei “tecnici” e del “centrosinistra”, sia il “sovranismo” neofascista. È l’ideologia del saccheggio. Si basa sull’imposizione violenta delle ricette economiche astratte di von Hayek e Friedman: nel Cile di Augusto Pinochet, nell’Argentina di Videla e dei generali. E in mille paesi del Sud del mondo sottoposti al regime postcoloniale. È l’ideologia totalitaria dell’Unione Europea.
I liberali del centrosinistra chiamano all’unità antifascista quando sono in campagna elettorale, ma praticano fascismo e allevano fascisti quando governano.



Non si tratta di rifiutare completamente ogni elemento di liberalismo. Si tratta di rifiutare l’opportunismo ipocrita. E la rigidità ideologica, anche quella liberale: cominciando con l’ammettere che la rigidità ideologica liberale esiste, ed è nociva quanto le altre. I più illuminati, e illuminanti, di un campo o di un altro, di solito sono quelli che hanno saputo apprendere da altri, farsi influenzare e contaminare: mi vengono in mente il comunista Gramsci e il liberale Gobetti. Quelli che non si sono chiusi all’interno di uno steccato ideologico rigido – senza per questo evitare la responsabilità delle proprie opinioni. I possibili punti di partenza sono molteplici, i possibili punti di contatto sono molti di più. E le possibilità di sbagliare, anche per i sinceri e gli onesti, sono innumerevoli.
Una presa di posizione polemica (come questa sopra) può essere motivata, e può mostrare delle possibilità; insistere, indugiare nella polemica è invece nocivo, porta alla chiusura, all’irrigidimento, al ristagno.
Spero di trovare motivi per cambiare idea.


I fissili sono “fossili”

L’energia nucleare non è creata dal nulla.
È ottenuta a partire da materiali detti fissili, ovvero che possono subire fissione nucleare. Materiali, come l’uranio, preparati a partire da minerali estratti da giacimenti che hanno un’estensione limitata e una collocazione geografica.
Come i combustibili fossili, non si tratta di risorse infinite, né rinnovabili: le miniere di uranio sono destinate ad esaurirsi.
I luoghi dove si trovano i giacimenti di uranio, così come i luoghi dove si trovano i giacimenti di petrolio o metano o carbone fossile, sono luoghi di guerra, a meno che si trovino sotto il dominio diretto di grandi potenze militari.
Quindi i “fissili” sono come i “fossili”.
Ah, la tecnologia della fusione nucleare controllata, per citare una frase che si sente in questi giorni, non è scientificamente plausibile(*).
Lo sfruttamento dell’energia nucleare implica concentrazione finanziaria e controllo militare del territorio e delle persone.
Per questo è attraente per chi è affascinato dal potere, dal dominio.
Per questo è rifiutata da chi delle persone ha a cuore la vita, la libertà e la dignità.

(*) La tecnologia della fusione nucleare controllata non è plausibile (non la fusione in sé, quella avviene nelle stelle e nelle esplosioni termonucleari) perché il controllo della fusione nucleare è un problema scientifico aperto, ovvero non risolto. Quindi non è plausibile una “tecnologia” basata su questo. Se e quando (quando e se) sarà risolto il problema scientifico della fusione nucleare controllata, si porrà il problema tecnologico. Non prima.

Inoltre, non tutte le varie reazioni di fusione nucleare che sono oggetto di ricerca scientifica sono “pulite”. Una reazione di fusione nucleare può essere considerata “pulita” solo se tutti i prodotti della reazione hanno carica elettrica, positiva o negativa. In particolare, la reazione non è “pulita” se vengono prodotti neutroni. Il fatto è che particelle cariche come elettroni, o protoni o nuclei atomici (stabili…) possono essere controllate attraverso campi elettromagnetici, mentre le particelle neutre no. L’unico modo di rallentare o fermare i neutroni (e recuperare la loro energia cinetica) è mediante collisioni con i nuclei atomici dei cosiddetti materiali di “raffreddamento” (come la grafite di Chernobyl e l’acqua di Fukushima). Se in una reazione di fusione nucleare vengono prodotti neutroni, non solo i materiali di raffreddamento, ma le strutture stesse della centrale, essendo sottoposte a un sistematico bombardamento di neutroni, diventano radioattive: non si tratta di “energia pulita”. La difficoltà, difficilmente sormontabile, non sta solo nel fare avvenire una delle (poche) reazioni di fusione “pulite” (quelle che producono solo particelle cariche), ma soprattutto nel non fare avvenire altre reazioni, sporche, a partire dagli stessi reagenti – o da altri nuclei inestricabilmente mescolati ai reagenti della desiderata reazione “pulita”.

Traduzione in Italiano dell’intervento di Greta Thunberg alla conferenza COP24 a Katowice 2018

Discorso di Greta Thunberg alla conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico “COP24”, Katowice, Polonia, 4 dicembre 2018

Mi chiamo Greta Thunberg. Ho 15 anni. Sono Svedese. Parlo a nome di Climate Justice Now.

Molti dicono che la Svezia è un piccolo paese e che quello che facciamo non ha importanza.

Ma ho imparato che non si è mai troppo piccoli da non poter fare una differenza.

E se pochi ragazzini possono andare in prima pagina semplicemente non andando a scuola, immaginate quello che potremmo fare tutti insieme se davvero volessimo.

Ma per farlo dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto ciò possa essere scomodo.

Voi parlate solo di eterna crescita economica verde perché avete troppa paura di essere impopolari.

Parlate solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo caos, anche quando l’unica cosa sensata da fare è tirare il freno di emergenza.

Voi non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno.

Perfino questo compito, lo lasciate a noi ragazzini.

Ma a me non importa di essere impopolare.

A me importa della giustizia climatica e del pianeta vivente.

La nostra civiltà viene sacrificata per garantire l’opportunità a un numero di persone molto piccolo di fare enormi quantità di denaro.

La nostra biosfera viene sacrificata affinché della gente ricca, in paesi come il mio, possa vivere nel lusso.

È la sofferenza dei molti che paga il lusso dei pochi.

Nel 2078 io compirò 75 anni. Se avrò figli, forse passeranno quella giornata con me.

Forse mi chiederanno di voi.

Forse mi chiederanno perché voi non avete fatto niente, quando ancora c’era tempo per agire.

Voi dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, eppure state rubando loro il futuro, davanti ai loro stessi occhi.

Finché non inizierete a concentrarvi su ciò che deve essere fatto, piuttosto che su ciò che è politicamente possibile, non ci sarà speranza.

Non si può risolvere una crisi senza affrontarla come una crisi.

Occorre lasciare i carburanti fossili nel suolo, e occorre che ci concentriamo sull’equità.

E se è impossibile trovare soluzioni all’interno del sistema, forse dovremmo cambiare il sistema.

Noi non siamo venuti qui a implorare i leader del mondo di ascoltarci.

Ci avete ignorati nel passato e ci ignorerete ancora.

Voi non avete più scuse, e noi non abbiamo più tempo.

Siamo venuti qui per farvi sapere che il cambiamento ci sarà, che vi piaccia o no.

Il potere reale appartiene al popolo.

Grazie.

Realtà e verità

Ricapitolando, in corrispondenza dei primi due elementi nella relazione fondativa di consapevolezza (consciousness) – ovvero Tu, l’altro soggetto, come me, ma distinto da me; (quindi) Io, distinto da te, ma come te –, sono stati individuati due punti fondativi di coscienza (conscience), sempre con una modalità relazionale: dare ascolto e importanza all’altro me stesso, che mi parla come un altro soggetto; dare ascolto e importanza a te, l’altro, che sei come me, mi rifletti, ma anche mi sorprendi prendendo iniziative inconsulte, come un comico allo specchio.

Nella sequenza di sviluppo della consapevolezza ci sono però altri elementi. Viene spontaneo1 prenderli in considerazione, a partire dal terzo punto: la realtà oggettiva.

Così come l’interlocuzione con l’altro me stesso sviluppa e trasforma (da consciousness a conscience) la relazione di autoconsapevolezza con “Io”, e l’attenzione a te, l’altro, sviluppa e trasforma la relazione fondativa con “Te”, è possibile sviluppare e trasformare anche il terzo elemento di consciousness e formulare quindi il terzo elemento di conscience: dare importanza alla realtà oggettiva.

Dire la verità. Onestà intellettuale. Metodo scientifico.

Se si tratta di oggetti e non di soggetti è apparentemente fuori luogo cercare di “dar loro retta” e “ascoltarli”. Ma questo non vuol dire che si debba trascurarli.

La realtà oggettiva va presa sul serio.

Ha importanza, per esempio, nell’indicare che i soggetti, ovvero tu ed io, e tutti gli altri, saremo sì soggetti, ma siamo anche reali, ovvero materia ed energia in divenire.

Quindi, almeno: dire la verità.

La verità va intesa come resoconto sinceramente veritiero dei fatti.

Dare importanza alla realtà oggettiva implica descriverla con sincerità e onestà. Non alterare deliberatamente i fatti. Dire quel che si vede, nel modo più semplice.

Detto in altro modo: va bene essere soggettivi, ma almeno essere sinceri.

Non sostituire la realtà con una sua rappresentazione preconfezionata.

Impegnarsi per non travisarla.

Impegnarsi a non esagerare con la retorica.

Va detto che esprimersi in modo semplice non è facile. La maggior parte delle persone (in diversa misura tutti noi, in effetti, per la maggior parte delle cose che diciamo tutti i giorni) non riesce a esprimersi se non per metafore o frasi fatte, espressioni proverbiali e slogan ripetuti (che trascinano necessariamente con sé il loro carico di associazioni di idee, riferimenti culturali e implicazioni ideologiche).

Quando si cerca di descrivere una realtà complessa, il requisito di attenzione alla realtà oggettiva richiede anche l’onestà intellettuale.

Se si indaga la realtà oggettiva per conoscerla, questo requisito diventa quello di usare il metodo scientifico, e in modo appropriato alla porzione di realtà da indagare.

Anche la materia non vivente può sorprendermi: sturm und drang, fulmine, arcobaleno, foto di Saturno (o della Terra dallo spazio). O una gita su un ghiacciaio. Questo non ne fa un soggetto. Ma al contrario potrebbe suggerire qualcosa sulla natura del soggetto “io”.

Anche qui è importante la relazione e la distinzione da sé, in questo caso dell’oggetto. È effettivamente possibile interagire con oggetti senza distinguerli da sé. Per imparare a usare strumenti, occorre superare la distinzione tra se stessi e l’oggetto–strumento, per farlo diventare come una protesi, un’estensione dei propri sensi e dei propri arti. Gli occhiali, mentre leggo, non sono al centro della mia attenzione cosciente. L’auto, quando guido. La penna, quando scrivo. Sono parte di me, e li uso sia per trasformare la realtà oggettiva, sia come organi sensoriali. Quando guido “sento” le buche sulla strada. Evito gli ostacoli, primariamente, per non “sbucciarmi” i fanali. Se la biro non scorre bene sulla carta, o se gli occchiali sono sporchi, mi sento menomato.

E naturalmente, di strumenti, a ciascuno il suo: il coltello del macellaio, la scarpetta del podista, gli sci dello sciatore, la cazzuola del muratore, il bisturi del chirurgo, il cesello dell’orafo.

L’uncinetto della mia bisnonna.

Nelle arti Zen, l’arco e l’arciere, il pennello e il calligrafo, la spada e il guerriero perdono la loro distinzione. Anche la soggettività dell’artista scompare, nelle arti Zen: scompare il soggetto, e rimane solo il Tao (Dào / Dō ) che fluisce.

In tutti questi casi, diciamo: val più la pratica che la grammatica

Ed ecco qua un’apparente semplificazione ottenuta per mezzo di un espressione proverbiale… vedi sopra.

Per “capire” gli oggetti, invece, devo separarmene.

Nella tradizione occidentale cerco di costruirmene un modello mentale.

O di scrivere una ricetta: una sequenza di operazioni.

Nella ricerca scientifica, l’osservatore non deve influenzare il risultato di un’osservazione, di un esperimento. Si sa, dalla fisica quantistica, che la distinzione tra osservatore e osservazione non è possibile in assoluto: ogni processo di osservazione modifica la porzione di realtà che viene osservata. Ma, a maggior ragione, ciò enfatizza l’importanza di ridurre al minimo l’influenza dell’osservatore, ovvero del processo di misura, sull’oggetto: sapendo però che questa influenza non può essere eliminata del tutto. Si tratta semmai di cercare di quantificarla.

A volte poi capita anche che l’oggetto sia inevitabilmente, a sua volta, un soggetto.

Il medico, ad esempio, per essere e restare medico, deve distinguersi dal paziente, e trattarlo come oggetto. Ma non può davvero farlo: il paziente è a sua volta un soggetto. E un soggetto non può ignorarne un altro impunemente.

Il medico potrebbe separare se stesso dal paziente solo estinguendosi, ovvero smettendo di essere soggetto e diventando oggetto: lo strumento di cura del soggetto–paziente. Ma non può fare nemmeno questo, perché deve essere un attivo soggetto di conoscenza: del paziente e del suo stato di salute.

D’altra parte il medico non può trattare il paziente da mero oggetto anche per qualche altro motivo. Il paziente è strumento di misura del suo proprio stato, misura soggettiva finché si vuole, ma il paziente può ben pretendere di sapere come sta.

Il paziente è anche strumento di intervento attivo sul proprio stato: il farmaco può attivare una o più reazioni nel corpo del paziente, e queste reazioni possono interagire con lo stato del paziente, eventualmente determinando o favorendo un qualche tipo di guarigione. E abbiamo appena visto che un operatore (il medico), per usare uno strumento (il paziente), deve aver imparato a usarlo, cancellando la distinzione tra quello strumento e sé.

Infine, se il medico prescrive dei farmaci, o una dieta, o un’attività fisica riabilitativa al paziente, poi è il paziente che deve farsi carico (soggettivamente) di questa parte della terapia.

Questa relazione complicata in cui (almeno) due soggetti sono o diventano a turno oggetti e soggetti si ritrova in mille altre situazioni. Il Maestro e l’Allievo, ad esempio. E naturalmente nelle relazioni di potere: il sovrano e il suddito (e con questa siamo a due relazioni confuciane in due righe).

Per tornare ad Hannah Arendt, il filosofo che volesse occuparsi del pensiero, ovvero di studiare l’altro sé, ha un problema simile a quello di medico e paziente, ma tutto dentro la propria coscienza. Auguri…

“Per pensare a qualcuno, devo assentarmene” [Arendt, Responsabilità e Giudizio].

“Per pensare all’altro me stesso, devo assentarmi da me stesso” [Arendt, Responsabilità e Giudizio].

Dallo schema oggetto/soggetto rimangono un po’ fatti-a-fette gli esseri viventi non umani. Ad esempio scimpanzé, che pure apprendono un po’ a comunicare con la lingua dei segni [Fouts]. Ma ci sono tante specie animali, e ci sono le piante, e ci sono altri esseri viventi che non sono né animali, né piante. Tra soggetti umani e materia inerte c’è la vita e la sua evoluzione. La materia e l’energia hanno la loro dinamica anche senza la vita, e la vita è una singolare modalità della materia e dell’energia. L’autoconsapevolezza umana, coi suoi limiti, è un particolare percorso tra tutti quelli seguiti dall’evoluzione della materia vivente [Gould, Dawkins]

1 Almeno a qualcuno che da piccolo ha studiato fisica ed è stato formattato per cercare le simmetrie.

Dalla ‘consciousness’ alla ‘conscience’

Hannah Arendt (con Socrate e Kant) distingue tra due aspetti della coscienza, o due diversi concetti di coscienza, e fa riferimento a due termini in inglese: consciousness, coscienza intesa come “consapevolezza” di sé, degli altri, della realtà oggettiva, del mondo; e conscience, “coscienza” intesa in senso morale, come capacità di distinguere il bene del male, e di scegliere il bene.

La riflessione di Arendt fa riferimento al sovvertimento dei valori morali operata in Germania durante il Nazismo, e in particolare all’incapacità generalizzata dei singoli cittadini tedeschi di rifiutarsi di collaborare alle persecuzione delle vittime. E si interessa delle eccezioni, e delle motivazioni degli uni e degli altri. Questo è un problema che si sono posti e hanno affrontato lucidamente anche Primo Levi (già in Se questo è un uomo, scritto nel 1946, nel racconto Vanadio e nella sua ultima opera I sommersi e i salvati) e Zygmunt Bauman. Il caso del Nazismo, pur con tutte le sue specificità, costituisce un riferimento importante, proprio perché è stato un fatto reale, operato da esseri umani nei confronti di altri esseri umani. E a differenza di altri crimini di massa attuati nella storia (recente e meno recente), è stato studiato con particolare attenzione e lucidità da chi ha saputo affrontarlo, non come anomalia, ma come fenomeno “interno” alla modernità europea: indagando in particolare sui processi mentali dei carnefici e dei loro collaboratori più o meno “grigi”.

In queste note si è finora individuato il fondamento relazionale dell’acquisizione di coscienza “filosofica”, cioè di consapevolezza (consciousness) da parte di un soggetto nel corso della sua formazione. Si è evidenziata l’importanza della relazione primaria infante–madre per la costruzione di un modello di relazione io–tu che permette di fondare la costruzione dell’identità propria di io–soggetto in relazione (riconoscimento, identificazione e distinzione, attrazione e contrasto) a te–altro: in origine, appunto la madre. La relazione primaria è poi replicata e sviluppata nei confronti della realtà oggettiva, degli altri, del mondo, via via producendo coscienza – intesa come consciousness.

Si tratta ora di capire cosa ciò può avere a che fare con lo sviluppo della coscienza morale, ovvero della conscience.

Ogni passo della sequenza di sviluppo della consapevolezza individua una relazione tra il soggetto in evoluzione e un interlocutore, a cominciare dall’interlocutrice primaria, la madre.

L’idea è che la coscienza, intesa come conscience, nasce dal provare a dare ascolto, ovvero a dare importanza, ovvero a rispettare e a prendere sul serio l’interlocutore che fonda la consciousness.

Di volta in volta: Tu, Io, Realtà, Voi, Mondo.

In questa nota sono presi in esame i primi due, ovvero “Io” e “Tu”.

Io

Se io esisto come soggetto, provo a prendere me stesso sul serio.

Provo ad ascoltare ciò che ho da dire.

Questo è esattamente il meccanismo del dialogo interiore con l’altro sé secondo H. Arendt (che fa riferimento per questo a Socrate e Kant).

Quando un soggetto diventa consapevole di esistere comincia a comunicare con se stesso. Ovvero, viceversa: quando comunico con me stesso so di esistere.

Anche in questo caso il modello è quello della comunicazione con “te”, l’altro soggetto.

La comunicazione con se stessi può arrivare a prendere la forma di un dialogo, il dialogo interiore: ciò significa fare uso della lingua (parlata, anche se non necessariamente pronunciata, o scritta).

Arendt cerca e propone una base (che definirei operazionale) del meccanismo morale. Io so che, se compio un crimine, poi dovrò vivere per tutta la vita con un criminale: me stesso. Ovvero, anche: io-criminale dovrò vivere con l’altro me, “giudice”, che mi disprezza per ciò che ho fatto. Per questo motivo posso riuscire a fermare me stesso, prima di attuare un crimine (o prima di obbedire a un ordine criminale): “non posso farlo”, perché non potrei continuare a vivere con me stesso se lo faccio.

Ciò che invece spinge un soggetto a un crimine può essere non solo una pulsione o un calcolo di interesse, ma anche una pressione sociale, come discusso dalla stessa Arendt e da Bauman nel caso paradigmatico del Nazismo e dell’Olocausto.

Arendt mostra come il dialogo del soggetto con se stesso (ovvero: il mio dialogo con me stesso) sia ciò che porta Socrate ad affermazioni come: “meglio patire che infliggere il male”; “il tiranno è un uomo infelice”. E Democrito: “colui che commette l’ingiustizia è più infelice di chi la subisce”. E sottolinea l’importanza di evitare, per Socrate l’auto-contraddizione, per Kant il disprezzo di sé.

Tu

Qua rimane da stabilire, però, che cosa sia un crimine e cosa non lo sia. Cioè quando, in quali casi, l’altro me stesso cerca di fermarmi, minaccia di giudicarmi. Ovvero quando io cerco di fermare me stesso: sono sempre io, e porto la responsabilità di entrambi i “me”.

Esistono indicazioni generali: i precetti morali che vengono dall’antichità, dalle religioni, dalla storia del pensiero, compreso il pensiero critico (critico cioè della relazione tra morale e potere). Ma, appunto: da un lato il problema della Arendt è che a volte, come nel caso del Nazismo, i precetti morali vengono collettivamente capovolti; dall’altro rimane il problema della loro origine.

I precetti morali, sebbene si propongano necessariamente come universali, non sono tutti uguali. E non tutti i crimini sono uguali. Alcuni precetti morali che vengono dall’antichità possono apparirci oggi un po’ troppo rigidi e fuori contesto. Inoltre, nel corso della storia, sono anche stati formulati precetti che prima non c’erano. E se guardiamo indietro nel tempo, in effetti tutti i precetti morali sono stati formulati a un certo punto della storia. Sono frutto di attività umana.

La stessa Arendt, che fa riferimento da un lato a Socrate, dall’altro ai dieci comandamenti e al Vangelo, sottolinea come il precetto è spesso definito in relazione a .

Ad esempio: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

A questo proposito, io non solo posso individuare un “altro me stesso” con cui dialogare interiormente, ma posso anche vedere “me stesso nell’altro”, come in uno specchio. E questo ci riporta alla formazione della consapevolezza (consciousness) in opposizione-relazione con te-altro

Affinché si formi la coscienza – conscience, devo prestare ascolto, prendere sul serio e dare importanza a me stesso: il mio interlocutore è l’altro me stesso.

Invece, per attuare, o agire, la conscience, ovvero per distinguere tra il bene e il male, il criterio è allora quello di prendere sul serio, prestare attenzione e ascolto, attribuire importanza e rispetto al mio interlocutore primario, ovvero a te/altro, che non solo mi rifletti, come in uno specchio, e sei quindi la condizione della mia coscienza–consciousness, ma che addirittura mi fornisci il modello per l’altro me stesso, ovvero la condizione della mia coscienza–conscience.

Senza di te, io non esisterei.

Non potrei sapere di essere.

Non potrei dialogare con me stesso: non potrei pensare.

Di questo, io, con te/altro, sono in debito. Un debito di natura prettamente morale.

Dare importanza a te.

Nella relazione primaria, quella tra madre e infante, i soggetti sono due, e anche gli interlocutori sono due.

Io–soggetto ho questo debito con te–altro, sul modello del debito primario che ho con mia madre, perché anche a te–altro, che incontro, o con cui mi scontro successivamente nella mia vita, “devo” parte della mia identità, della mia stessa esistenza come soggetto consapevole.

E sul modello della relazione con te-madre, io, proprio in quanto ex-infante, posso – e a un certo punto devo – scambiarmi con “te”.

E quindi diventare madre.

Se “io” sono donna, è possibile, anche se non certo, che “diventare madre” possa a un certo punto essere una condizione reale.

Ma anche senza diventare effettivamente madre, ovvero, in particolare, anche se “io” sono uomo, è naturale, appropriato e produttivo di consapevolezza (consciousness) e di coscienza (conscience) mettermi al tuo posto di madre.

E quindi sviluppare e valorizzare la mia capacità di empatia.

Questa facoltà, radicata nel cervello di tutte e di tutti, codificata dall’evoluzione nel nostro hardware neurale, e particolarmente potenziata nel cervello di una neo-madre a partire dalla gravidanza fino ai primi mesi dopo il parto /la nascita, è la capacità che permette a me – a ciascuno di noi, a tutte e a tutti – di mettere me stesso al tuo posto.

E di mettere te al mio.

Questa è la base, il fondamento autentico della morale.

Limiti

La capacità di vedere se stesso nell’altro e di mettersi al suo posto è probabilmente il più autentico fondamento della morale. Ma non basta di per sé a garantire il bene.

La capacità di – l’attitudine a – vedere se stesso nell’altro può essere anche l’origine del disprezzo o dell’odio.

Quando uno, nell’altro, vede se stesso, può non piacergli affatto quello che vede.

Il dialogo con l’altro sé costituisce l’attività del pensare ed è probabilmente l’unica possibilità di esercitare un giudizio morale su di sé, e di fermarsi dal compiere un crimine quando c’è una spinta a farlo, in particolare costituita da pressioni del proprio contesto sociale – anche istituzionale, in certi casi.

Esistono però due problemi di difficile soluzione, ovvero il problema della reiterazione, e il problema dei minions.

Reiterazione

Un soggetto può fermarsi, e astenersi dal compiere un atto criminale, o un atto profondamente immorale se, seguendo Arendt, “pensa”. Ovvero: dialoga con “l’altro sé” e conclude che “non può farlo” perché “non potrebbe vivere con se stesso altrimenti”.

Chi ha già compiuto un atto del genere, però, può aver già trovato un modo di convivere con se stesso.

Costui, cioè, ha già dimostrato a se stesso, ovvero all’altro sé, che di fatto “può” vivere con se stesso dopo il suo crimine.

Magari vive male.

Ma, appunto, può scoprire: non poi così male: basta – appunto – non pensarci.

Il che equivale a sopprimere l’altro sé, che, scomparendo, dimostra amaramente di avere avuto ragione: non può più vivere con se stesso. Ma intanto scompare.

Lo stesso meccanismo morale, il pensare dialogando con l’altro sé, quando è stato neutralizzato una volta, può rivelarsi quindi meno efficace.

Un argomento anti-morale contro l’altro sé può essere il seguente. Se mi fermo, ora, dal fare questo, perché disprezzerei me stesso se lo facessi, allora dovrei in effetti già ora disprezzarmi, perché l’ho già fatto in passato. Ma non voglio disprezzarmi per il passato: è intollerabile! E il passato non lo posso cambiare. Quindi non mi fermo nel presente. E procedo con il nuovo crimine.

Questa intollerabilità è simmetrica, in modo inquietante, con l’intollerabilità del “non poter vivere con se stesso altrimenti” in futuro che costituisce il meccanismo che permette di fermarsi, ovvero di astenersi dal compiere un crimine.

Minions

Se il problema è quello di “non poter vivere con se stesso altrimenti”, un criminale, o un corrotto, tende, potendo, a circondarsi di altri soggetti che si dedichino ad approvarlo, e così facendo gli dimostrino, nella pratica quotidiana, che invece, loro, possono.

Il problema è che purtroppo capita che li trovi.

Riferimenti

  • Hannah Arendt. Responsabilità e giudizio. Einaudi.
  • Hannah Arendt. La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme. Feltrinelli.
  • Primo Levi. Se questo è un uomo. Einaudi.
  • Primo Levi. Il sistema periodico. Einaudi.
  • Primo Levi. I sommersi e i salvati. Einaudi.
  • Zygmunt Bauman. Modernità e Olocausto. Il Mulino.

Suggestioni

All’inizio del Novecento, come l’atomo, anche il soggetto (inteso in senso filosofico) perde, a partire da S Freud, la propria compattezza irriducibile. Come per l’atomo, anche per il soggetto si comincia a studiare “come è fatto dentro”.

Dopo J Lacan, il soggetto è vuoto all’interno e (come l’atomo!) ha una polarità: tra il simbolico, ovvero la modalità dell’inconscio (nell’analogia atomica, il “nucleo”) e le immagini (la “nube elettronica”), ovvero la sostanza, intrinsecamente inadeguata (in questo senso potenzialmente alienante), di ciò che è conscio. Si tratta di immagini del mondo, di immagini di sé, di immagini – anche, ad esempio – di persone autorevoli. Il mondo è spiegato per immagini, che sono sempre imperfette. Modelli.

Ma nel mondo c’è il linguaggio, che per associazioni simboliche (dei significanti, non dei significati) interagisce direttamente con l’inconscio.

L’identità del soggetto che ne risulta appare come la “cavità risonante” tra simbolico e immagini, tra inconscio e “conscio”.

Il super-Io funziona per immagini. È ordinato, i suoi messaggi non appaiono ambigui. Infatti è sempre un po’ inadeguato: infatti può essere alienante.

E può essere alienato: il super-Io può benissimo sostituire un’etica particolare alla morale universale: tu devi uccidere, perché è il tuo dovere di soldato; devi denunciare quelle persone (bersagli della persecuzione, nascoste nel solaio del tuo vicino) perché è tuo dovere (di cittadino/ di suddito/ di fedele devoto/ di seguace del Capo).

Precedenti e ispirazioni di Lacan [A Di Ciaccia e M Recalcati]: il primo a criticare lo schema cartesiano soggetto-materia è GWF Hegel, che, continuando a parlare di “soggetto autocosciente”, è il primo a dire che un soggetto per diventare tale ha bisogno di un altro soggetto. Hegel propone la dialettica: è l’interlocuzione, o contrapposizione (…un rispecchiamento?) con un altro soggetto a generare, dialetticamente (appunto) l’autocoscienza in un soggetto.

E Husserl (Meditazioni cartesiane, in particolare la quinta – opera citata anche da C Trentini) riparte da Descartes, e costruisce l’Ego allo stesso modo (sospensione di giudizio sulla realtà → cogito), ma stabilisce poi che 1) per sfuggire al solipsismo il soggetto deve “incontrare l’altro” (espressione successivamente usata da E Levinas); 2) la realtà oggettiva è individuata a partire dall’interazione della collettività di questi cogitantes, ovvero il soggetto-ego e gli altri, gli alter ego.

Nello stesso periodo partono la psicoanalisi e la psicologia con S Freud, che si occupa di analizzare la struttura interna del soggetto, ne spezza l’unità atomica e ne individua la struttura: Ego /Es /Super-Io.

C’è qui un’analogia con quanto avveniva negli stessi anni in Fisica: si studiava la struttura interna dell’atomo, fino ad allora, come dice il nome, indivisibile. Anche il soggetto, come l’atomo, non è più, ormai, indivisibile, ma è dotato di struttura interna.

Sul lato filosofico anche M Heidegger riprende la relazione intersoggettiva con i concetti di Mit-Sein e Mit-Dasein (in Essere e Tempo).

Tutti questi autori hanno influenzato il primo Lacan, prima delle influenze di F de Saussure per la linguistica e di C Lévy-Strauss per l’antropologia.

Lacan dichiara (tra l’altro) che la costituzione dell’identità del soggetto-io avviene per interazione con altri. Questo avviene in due modi: immagini e simboli. In entrambi i casi il processo ha – o può avere – le caratteristiche di un’alienazione. L’identificazione primaria è con l’immagine di un altro: questa costituisce una divisione che stacca, separa, l’identità dell’io, costruita per immagini, dal soggetto inconscio. Questo è invece legato, attraverso simboli, al contesto sociale definito primariamente dal linguaggio. Così come il linguaggio ha struttura e regole, così l’inconscio. Inoltre le parole del linguaggio associano – in modo necessariamente imperfetto, da cui anche qui la possibilità /necessità dell’alienazione – un significante, che è un simbolo, a un significato, che è un’immagine, ovvero l’immagine di un elemento del mondo/universo di riferimento.

L’associazione tra significante e significato è imperfetta e mutevole. Ogni significante è associato a una catena ramificata di altri significanti, attraverso associazioni, metafore, metonimie e  ossimori, ma anche assonanze o dissonanze.

Il soggetto inconscio è organizzato per simboli, associati tra loro come catene di significanti, ed è distinto dalla collezione di immagini, su cui lavora l’io conscio, e che, a differenza dei simboli, non sono associate automaticamente tra loro. Ma possono in particolare essere collegate attraverso un’operazione volontaria.

L’identità individuale risulta quindi dalla separazione (polarità), tra l’inconscio, “nucleo” dei simboli e “l’orbitale” delle immagini.

Il soggetto inconscio è vivo, dinamico, pulsante nelle sue associazioni, legami e rimandi tra simboli; è collegato tramite questi al contesto relazionale intersoggettivo: famigliare, sociale, culturale e ideologico (quindi anche storico). Ma può essere confuso, caotico e distruttivo.

L‘io può (tentare di) essere ordinato, è costituito, ma è allo stesso tempo autore, di immagini. Modelli di riferimento, regole, attributi e proprietà. Nozioni, semplici e complesse. Luoghi comuni e proverbi, ma anche modelli concettuali, teorie astratte, certezze auspicate o pretese. Può essere statico, arido e frammentario – e d’altra parte illusorio – perché comunque inadeguato sia alla realtà  – materiale e sociale –  sia a contenere la pulsante vitalità dell’inconscio e delle sue associazioni simboliche.

Aggiungerei che oggi appare impossibile associare il “simbolico” esclusivamente al linguaggio verbale. Gesti, espressioni del viso, forme geometriche, elementi naturali possono essere, di fatto sono significanti, con le loro associazioni simboliche. Disegni, fotografie (“immagini” nel senso comune della parola, distinto cioè dal concetto di immagini mentali di Lacan) possono altrettanto innescare associazioni simboliche. E lo fanno.

Quanto alle immagini mentali lacaniane, è di questa sostanza che è fatta ogni verità, ogni teoria, ogni discorso, ogni modello. Possono (tentare di) rappresentare porzioni di realtà, ma non sono la realtà. La rappresentazione è necessariamente imperfetta. Identificare la realtà con una verità è sempre una forzatura.

Questo non preclude a modelli e teorie la possibilità di rappresentare adeguatamente una parte della realtà. Dal XX secolo in epistemologia si rinuncia alla verità assoluta, e si enfatizza la necessità di dichiarare esplicitamente l’ambito di validità di un modello o di una teoria. Ed è all’interno di quell’ambito di validità che si cercano conferme sperimentali: è solo lì che possono avere senso le smentite.

La coscienza di un soggetto lacaniano, polarizzato tra simboli e immagini, appare risiedere proprio in questa separazione: una “cavità risonante”, a voler insistere con le analogie fisiche. Se immagini e simboli non fossero separati, sarebbe impossibile la coscienza. Se fossero del tutto e permanentemente separati sarebbe impossibile vivere. Allora questo potrebbe essere il ruolo del sonno. Nel sonno immagini e simboli entrano in contatto. Le immagini perdono la loro aridità, la loro rigidità e le loro frammentazioni. I simboli si rinnovano e costruiscono associazioni nuove. Nel risveglio, immagini e simboli si separano di nuovo, rinnovati. Il soggetto cavo “respira” nei cicli di sonno e di veglia.

Riferimenti

  • Sigmund Freud. Filosofia e psicoanalisi (a c. di S. Moravia). Paravia, 1972.

  • Antonio Di Ciaccia e Massimo Recalcati. Jacques Lacan. Bruno Mondadori, 2000.

  • Darian Leader and Judy Groves. Introducing Lacan – a graphic guide. Icon Books, 2010.

Tracce

I cartesiani (E Husserl) partono da un soggetto solipsista, che per evitare il solipsismo rivolge la sua attenzione ad altri soggetti: ne scopre l’esistenza e inizia con essi un’interlocuzione. Così ammette la pluralità e la possibilità del mondo.

Nella presente prospettiva, invece, il soggetto costruisce la propria identità (e, su questa, consapevolezza) a partire dall’interazione con un altro soggetto: primariamente, da infante, la madre. Successivamente scopre la materia-oggetto e altri soggetti. Sul modello della relazione primaria infante/madre costruisce nuove relazioni, arricchisce la propria identità, sviluppa nuove consapevolezze. Pluralità e mondo.

Occorre però ammettere che questo è possibile perché il soggetto umano ha, dentro di sé, la possibilità di farlo. In particolare nella struttura del cervello, che è comunque parte del sistema nervoso e del corpo. Ecco una condizione “trascendentale” della costruzione di identità, di consapevolezza, di conoscenza – ed eventualmente di coscienza: si tratta di una pre-condizione fisiologica, la cui origine è evolutiva.

Questa possibilità, o condizione trascendentale, ha caratteristiche che sono state indagate storicamente da molti, con metodologie e linguaggi diversi, in generale da tutte le riflessioni filosofiche e religiose nelle varie fasi della storia. E non solo della storia europea.

Tra gli altri, per diversi aspetti, anche dagli stessi cartesiani (kantiani, hegeliani, eccetera) del periodo moderno; dagli psicologi e psicoanalisti (S Freud, J Lacan); dai linguisti (F Saussure, N Chomsky, T De Mauro); dagli studiosi di cibernetica e di intelligenza artificiale (N Wiener, M Minsky); dai neurologi, fino agli studi scientifici recenti sulla struttura e fisiologia del cervello, in particolare con la scoperta dei neuroni-specchio (G Rizzolatti).

Questa possibilità, o condizione, in particolare quella specifica che riguarda il linguaggio, caratterizza gli esseri umani e li distingue dagli altri animali. Ma non compare tutta intera improvvisamente dal nulla. È il risultato dell’evoluzione (F Ferretti).

La stessa distinzione tra una specie e un’altra può apparire molto netta se si studiano le specie in uno stesso istante di tempo (ma anche in questo caso ci sono ambiguità e sfumature, scambi genetici orizzontali in molti microorganismi e anche in macro-organismi vegetali). Però è necessariamente sfumata se si considera l’evoluzione (R Dawkins). Ogni specie deriva da un’altra. Specie contemporanee distinte discendono da una specie antenata comune, che non coincide con l’una né con l’altra. Quindi letteralmente non è vero che tutti gli antenati di un individuo appartengono alla stessa specie. Andando indietro nel tempo, da un certo punto in poi si trovano antenati che appartengono a una specie diversa da quella dei loro discendenti odierni. La distinzione è distribuita su molte generazioni, non è netta, anche se può essere concentrata in un periodo geologicamente breve: il periodo della speciazione.

L’evoluzione (R. Dawkins, S. J. Gould), attraverso i vari meccanismi della selezione naturale (compresa in particolare la exaptation, secondo cui un organo che svolge una determinata funzione in una specie può adattarsi, per selezione naturale, a svolgerne un’altra differente nella specie discendente in un periodo successivo, S. J. Gould e E. S. Vrba), ha prodotto nel corpo umano (il sistema nervoso, il cervello) la possibilità di funzioni come il linguaggio, attraverso le funzioni motorie (F. Ferretti) e l’abilità di costruire immagini articolate e complesse di un altro soggetto, di sé, dell’ambiente, degli altri, del mondo. Ovvero costruire modelli mentali, e in particolare della mente degli altri: la “teoria della mente”.

Elementi di simili funzionalità, necessariamente presenti almeno nell’ultima specie antenata della specie umana, si possono trovare oggi, sebbene di fatto drasticamente più limitate, anche in altre specie animali contemporanee, in particolare quelle più vicine geneticamente agli umani (R Fouts).

Riferimenti

  1. Edmund Husserl. Meditazioni Cartesiane. Bompiani, 2009.

  2. Tullio De Mauro. In principio c’era la parola? Il Mulino, 2009.

  3. Marvin Minsky. La società della mente. Adelphi, 1989.

  4. Francesco Ferretti. Allle origini del linguaggio umano – il punto di vista evoluzionistico. Laterza, 2010.

  5. Richard Dawkins. Il più grande spettacolo della terra: perché Darwin aveva ragione. Mondadori, 2010.

  6. Stephen J. Gould. La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia. Feltrinelli, 2007.

  7. Stephen J. Gould, Elisabeth S. Vrba. Exaptation, il bricolage dell’evoluzione. Bollati Boringhieri, 2008.

  8. Roger Fouts. La scuola delle scimmie – come ho insegnato a parlare a Washoe. Mondadori, 1999.

Relazione e pensiero

Un soggetto non può esistere da solo.

Perfino ogni filosofo è stato un infante e ha avuto una relazione primaria con la sua mamma (o con una balia). Fin da bambino ha avuto relazioni con altri soggetti, bambini e adulti, e ha avuto una formazione.

È nella relazione con altri, a partire dalla relazione primaria madre-infante, che una persona si forma e che può diventare, tra l’altro, “soggetto” in qualche modo o misura consapevole di sé.

A partire dalla relazione primaria madre-infante, che fonda e modella le successive relazioni tra soggetti tu-io, si può sviluppare una qualche consapevolezza della realtà oggettiva, della molteplicità di altri soggetti, della società: il “mondo”1.

I termini delle distinzioni, riflessioni e risonanze tra soggetto e soggetto, tra soggetto e realtà oggettiva e tra soggetto e pluralità di altri soggetti continuano ad essere costruiti e modificati per tutta la vita.

La comunicazione viene prima. Ovvero ogni interazione è comunicazione. Dopo viene (appreso) il linguaggio, scambio di simboli, che produce nuova comunicazione. E influenza, plasma lo sviluppo di identità consapevole.

Con il linguaggio, ma non solo la lingua parlata, viene la cultura, ovvero organizzazione condivisa del “mondo”. Condivisa con i soggetti più vicini, con cui è più intensa e frequente l’interazione. Il “mondo” è la realtà, o meglio: quella parte della realtà che il gruppo sociale “vede”.

Giocattoli, mobili, alimenti, cane, gatto, cucina, camera da letto.

La casa, il villaggio, la risaia /i campi, la foresta, la montagna.

La casa, il cortile, la strada.

La città, la campagna.

Il quartiere, il parco, la scuola, il negozio, la bottega, il cantiere, la fabbrica.

Il linguaggio organizza il mondo: tu – io; lui/lei; voi – noi, loro. The cat is on the table.

Lo stesso concetto di “soggetto” come individuo autocosciente, con le sue caratteristiche e limitazioni, è culturale: occidentale, europeo.

La definizione dell’identità individuale è sempre in relazione a “tu”.

Anche l’identità di un gruppo si costituisce in relazione, spesso in contrapposizione, con un altro soggetto collettivo esterno.

Esplicitare l’importanza della relazione tra soggetti differenti può essere produttivo anche nell’attività di conoscenza.

Pensiero, attività mentale. Compresa la filosofia e la matematica.

E tutte le cose difficili: come fare il vino, e farlo buono.

Una strategia generale, una tattica di azione. O un lavoro. O un gioco.

Quando uno si mette lì e pensa, forse pensa di comunicare in qualche modo con qualcun altro. Anche se quell’altro non è lì. Ma è nella nostra mente.

Perfino se devo trasformare della materia inerte, a volte penso di parlarci. O uovo, ora ti cucino. O pezzo di legno, ora ti faccio diventare un burattino. O maccherone… mo’ me te magno.

Se invece devo fare un bel discorso, immagino un interlocutore o un pubblico che mi ascolti.

Se devo “farmi valere”, cerco di fare bella figura nei confronti di un autorevole interlocutore immaginario. Papà. O Aristotele, per dire. O la nonna.

L’interlocutore, al limite, può essere l’immagine di se stesso/a che uno/a ha: cosa penserebbe, o direbbe, o farebbe, in questa circostanza, il/la me stesso/a ideale?

“Fai vedere chi sei!”. Chi me lo dice? E far vedere a chi?

Come è fatto l’interlocutore ideale, beh, quello può variare. Varia tra diversi soggetti, dipende dalle particolarità e dall’esperienza formativa di ciascuno. E varia anche per uno stesso soggetto in diversi momenti e contesti, e in diversi periodi della sua vita.

Nebbia: nella nebbia gli stimoli esterni mancano, ma non si è in un ambiente noto e rassicurante, si è…da nessuna parte. Quindi si cerca qualcosa al di fuori di sé. Meglio: qualcuno. E lo si cerca con apprensione.

Lo schema della costruzione della propria identità e auto-consapevolezza da parte del soggetto in relazione (opposizione, distinzione, comunicazione) con un altro soggetto è così forte che viene sempre replicato. Si parte dall’infante e la sua mamma.

La persona, il bambino/a che cresce e diventa ragazzo/a, adolescente, adulto/a, replica lo schema nei successivi confronti: di nuovo, più volte, nell’interazione con sua madre, in diverse fasi del loro rapporto (della “crescita”). Con suo padre, quando c’è, nelle modalità da sempre (ma in particolare da Freud in poi) variamente analizzate. Con altri, oltre i genitori, a cominciare da fratelli e sorelle, nonne e zie, parenti, amici e conoscenti. E la società di riferimento: compagni e colleghi, di scuola e di lavoro, coetanei e non coetanei.

La formazione dell’identità individuale procede per confronti con altri, che tendono a replicare l’impostazione del confronto primario dell’infante con la madre. Ma che si arricchiscono di modalità nel tempo, sia durante la crescita più strettamente fisiologica, sia attraverso esperienze, cultura e creatività, riflessione, intelligenza e fantasia.

La costruzione di sé come soggetto viene replicata anche nella fondazione di un soggetto plurale, un gruppo: il gruppo è delineato da un confine, chi sta dentro e chi sta fuori: il soggetto plurale si confronta con soggetti esterni, plurali o singoli. Così costruisce identità: nel bene e nel male.

Nel passaggio tra la soggettività singolare e plurale si pone il problema della struttura: relazioni interne al gruppo, gerarchia e parità.

Parallelamente, direi, all’acquisizione della pluralità, il soggetto si confronta con la distinzione di sesso e le sue associazioni culturali, il genere. L’appartenenza di genere, come elemento di identità, condiziona ogni confronto tra due soggetti, singolari e plurali, e le relazioni interne a ogni gruppo, e quindi la parità piuttosto che la gerarchia.

Il soggetto può essere collettivo, il che significa molto più che plurale. La pluralità si può trovare in un gruppo (famiglia, clan, branco), di cui si conoscono, con maggiore o minore intensità di relazione, tutti i membri, mentre non necessariamente si conoscono tutti i membri di una collettività. La struttura interna di una collettività è più complessa, stratificata e differenziata rispetto a quella di un gruppo: ci possono essere numerosi gruppi in una collettività ad esempio, aggregati e riaggregati diversamente in diversi contesti e in evoluzione dinamica. Ma anche una collettività, come un gruppo, capita che si definisca in opposizione ad un’altra. Anche qui: nel bene o nel male.

Tutto ciò non impedisce al singolo soggetto – né a un soggetto plurale: gruppo o collettività – l’attività del pensiero individuale, della riflessione: su sé, sull’altro, sugli altri, sul mondo. Ovvero su altri soggetti e sulla realtà oggettiva.

Il confronto con un altro soggetto a partire dalla distinzione da esso, è la condizione che dà origine all’identità individuale e alla consapevolezza di sé: res cogitans? Questa, dopo la sua nascita intersoggettiva può intraprendere tutto il suo percorso. E può anche svolgere la sua attività (se proprio ci tiene) su linee di sviluppo cartesiane. Ma, ovviamente, anche no.

La sua attività può, tra l’altro, anche applicarsi a conoscere e agire sulla realtà oggettiva, res extensa. Questo è un modo: lo schema di attività individuale del ricercatore scientifico, ad esempio.

Ma la ricerca scientifica è anch’essa, in realtà, un’attività collettiva, e per diversi motivi.

Il singolo interagisce con altri in un gruppo di lavoro.

I diversi gruppi interagiscono tra loro.

Si pubblica, e si studiano e usano le pubblicazioni, il lavoro degli altri.

Inoltre, temi e problemi scientifici evolvono nel tempo, influenzando la cultura generale. E subendone l’influenza.

Si può trovare, scoprire solo ciò che si cerca, si può confermare o smentire solo ciò che si ipotizza.

Le ipotesi scientifiche sono formulate, certo, con attenzione ai dati oggettivi, ma sulla base di idee che scaturiscono nelle menti individuali a partire dal contesto culturale e dalla sua storia, in tutti i loro aspetti: non solo quelli scientifici, ma anche letterari, artistici, filosofici, religiosi, ideologici.

Idee e ipotesi, in forma elementare o elaborata, possono venire dalle conoscenze pratiche, dai lavori manuali, dalle attività di cura [C. D. Conner], dalla vita sociale, famigliare, relazionale.

Infine c’è il pensiero inteso come dialogo con se stesso. L’altro se stesso di ognuno di noi, che ci accompagna e con cui dobbiamo vivere. La nostra identità, la nostra consapevolezza. La nostra coscienza.

Riferimenti

  1. Clifford D. Conner. Storia popolare della scienza – Minatori, levatrici e “gente meccanica”. Tropea, 2005

 

Note:

1 Un saggio potrebbe, eventualmente, ritrovare infine qui l’unità del reale nel suo fluire, com’è tipico dei saggi, senza per questo voler trovare una sola regola che spieghi tutto.

 

Dalla madre agli altri

La relazione tra l’infante e la madre, nei primi mesi successivi alla nascita, al parto, è la relazione primaria che produce un nuovo soggetto.

Il processo primario può replicarsi in diverse fasi e modalità, tra gli stessi due protagonisti originali, la madre e il figlio o la figlia, durante la crescita.

Il processo primario si replica anche nelle relazioni del nuovo soggetto con altre persone, a cominciare da quelle più prossime. Il padre, i componenti della famiglia, nonne, zie, fratelli e sorelle: le altre persone assiduamente presenti (balie e nutrici, per gli infanti upper class come il filosofo di cui si diceva).

La relazione tra “tu” e “io” che porta alla consapevolezza del nuovo soggetto non è simmetrica. Il soggetto “tu”, la madre, pre-esiste ed è consapevole di sé prima che il nuovo soggetto “io”, l’infante, lo diventi. La madre si suppone abbia costruito la propria identità in precedenza e in relazione a un altro soggetto: la propria madre, la nonna dell’infante (e così via, risalendo la catena di generazioni materne). La dissimmetria della relazione primaria non impedisce, anche se può forse limitare, la possibilità di una maggiore simmetria in altre, successive relazioni.

Le fasi sono:

1) “tu” sei — “sei tu”

2) “io” sono — “sono io”

A (1) si arriva necessariamente dopo un periodo in cui la relazione è attiva, e in cui il soggetto “io” non sa di essere: agisce prima di sapere, agisce prima di capire. Il riconoscimento di “tu” avviene come riconoscimento delle “tue” azioni, delle “tue” iniziative, del “tuo” stato d’animo. Anche delle “tue” risposte, senza bisogno di consapevolezza delle “mie”, ovvero di “io”, domande e richieste.

(1) è condizione di (2): è l’identificazione di “tu” che permette a “io” di identificare sè.

Il passaggio da (1) a (2) non è né immediato, né automatico: occorre nuova attività del soggetto “io”, che ora sa del soggetto “tu”, la identifica, ma ancora agisce senza sapere di sé.

Occorre anche l’attività del soggetto “tu”, madre.

“Io” ci può arrivare, a (2), ovvero a sé, accorgendosi dell’azione di “tu” che domanda azione, e che reagisce a stimoli: “io” scopre infine se stesso come l’agente di questa azione e di questi stimoli.

Tutto questo lavorío è denso di ripetizione, di imitazione. Oggi sappiamo dei neuroni-specchio. Azioni ed emozioni risuonano nei due sistemi nervosi.

Arrivare a (1), ovvero a “dire” (sapere, capire): “tu sei” — “sei tu” è frutto di similarità e differenze. E occorre la presenza di risonanze e similarità per poter individuare dissonanze e differenze. Occorre individuare differenze per distinguere. Occorre distinguere “te” per arrivare a dire “io”.

Una volta arrivato a (2): “io sono” — “sono io”, ovvero una volta arrivato a sé, il nuovo soggetto inizia a sapere di essere e l’interazione tra i due soggetti procede. L’altro soggetto “tu” conferma progressivamente a “io” la sua identità, separata da sé, il sé del soggetto “tu”. Nel caso della relazione primaria, la madre accoglie così il nuovo venuto, lo riconosce, ovvero ne riconosce l’identità come nuovo soggetto: a sé molto legato, ancora, certo, ma progressivamente da sé distinto. La relazione tra i due soggetti può quindi procedere a nuove fasi di consapevolezza reciproca.

E il nuovo soggetto, in particolare, può procedere a ulteriori nuove fasi di consapevolezza, ovvero:

– la materia

– gli altri

– il mondo.

Ancora in “Rispecchiamenti” (ad esempio) si descrive come anche l’esplorazione più o meno attiva dell’ambiente sia condizionata dalle modalità della relazione con la madre.

Dalla relazione tra “tu” e “io”, il nuovo soggetto può individuare che c’è altro, che è presente nella relazione, ma che è privo dell’iniziativa e dell’azione dei soggetti “tu” e “io”.

C’è materia: dura o morbida, liscia o scabra, dolce o salata.

Cibo e non-cibo (oltre l’allattamento).

C’è luce e c’è buio, caldo e freddo.

Cioè c’è qualcosa che non riflette né “te”, né “me”, che non risuona, che non prende iniziative: che non è soggetto.

“Io” inizia a distinguere la materia, gli oggetti, ovvero ciò che non è soggetto, da “chi” lo è: ma è difficile. Anzi, il tentativo è piuttosto sempre quello di attribuire soggettività a oggetti inanimati. L’attribuzione, anche se temporanea e deludente, di soggettività individuale a oggetti materiali, contribuisce a identificarli e a distinguerli dallo sfondo indifferenziato.

Nel frattempo il nuovo soggetto “io” inizia ad essere attrezzato per individuare la pluralità degli altri soggetti. Una volta individuati “tu” e “io”, oltre alla materia, può scoprire che ci sono anche altri soggetti, che non sono “tu”, non sono “io”, e non sono solo “materia”.

In particolare, anche questi altri soggetti sono portatori di risonanze, rispecchiamenti: ovvero di relazioni. Relazioni con “me”, con “te”, la madre, e anche tra loro.

Anche l’osservazione di un’interazione tra altri due soggetti è in grado di attivare i neuroni-specchio [Rizzolatti e coautori].

L’identificazione di altri soggetti rende più complesse le relazioni e l’acquisizione di consapevolezza da parte del soggetto “io”. 

Emergono differenze, tra cui la differenza tra i sessi.

A identificare il “mondo” si arriva replicando in parte i passaggi precedenti che hanno portato a conoscere la “materia” e gli “altri”. In particolare, una volta acquisito il concetto di pluralità, questo può essere applicato alla materia, che quindi può essere organizzata in una pluralità e varietà di oggetti.

È possibile identificare similarità e differenze tra oggetti.

È possibile identificare animali e piante, che non sono propriamente né “soggetti”, né “oggetti”, e però allo stesso tempo sono un po’ entrambe le cose: nuova pluralità e varietà.

Dall’acquisizione della pluralità, e con l’intervento di altri soggetti, il “mondo” arriva a comprendere la “società”, con l’acquisizione di struttura: ruoli, regole, gerarchie, riti. Anche la differenza sessuale si arricchisce e si complica, con l’associazione, nel bene e nel male, di atteggiamenti e ruoli di genere.

Ognuno di questi passaggi è fondato sulla relazione primaria.

In particolare, durante tutto il processo dalla relazione primaria alla società, il nuovo soggetto incontra la lingua: primariamente la lingua–madre, ovvero, ancora, la lingua della madre.

La lingua permette, amplifica e intensifica le relazioni con altri, adulti e non adulti, a cominciare dai più vicini e presenti, il padre, i famigliari, fino ad arrivare agli estranei. E a sua volta si arricchisce, in queste relazioni.

Arrivati alla società, e appresa la lingua, si può infine dire che qualcuno tra questi bambini capita pure che vada a scuola dai gesuiti e diventi filosofo.

Ma, belle o brutte, ci sono anche altre strade.

Relazione primaria

Un soggetto non può esistere da solo.

Un bambino, una bambina comincia a costruire una propria identità solo quando riesce a distinguere se stesso, se stessa, dalla sua mamma. Un altro soggetto.

Il libro di Cristina Trentini, “Rispecchiamenti” [1], descrive l’intensa relazione che si instaura tra la madre e l’infante nei primi mesi dopo il parto – la nascita.

In questo periodo, madre e infante interagiscono, comunicando attraverso contatto, gesti, espressioni del viso, atteggiamenti e suoni: progressiva comprensione.

Questo può avvenire grazie a predisposizioni innate nell’infante e a una modificazione preparatoria che avviene nella mente della madre durante la gravidanza: si tratta di caratteristiche evolutive della specie umana.

Il modo in cui avviene questa progressiva comprensione è la capacità, da parte della madre, di “pensare il pensiero” del/la figlio/a, riflesso nel proprio pensiero. E quindi di interpretarne contesto e bisogni.

Ciò innesca, altrettanto riflessivamente, nell’infante, la capacità (primordiale, se si vuole, ma in effetti potentissima) di “pensare la mente della madre” a propria volta, di riconoscerne espressioni e atteggiamenti come omologhi ai propri, e di interpretarne lo stato emotivo e le intenzioni.

A partire approssimativamente dal terzo mese la madre inizia ad attuare situazioni di disimpegno, a questo punto tollerabili dall’infante, che limitando eccessi di intrusione permettono una progressiva autonomia del nuovo soggetto.

Rispecchiamenti” e “riflessioni” sono espressioni che alludono al meccanismo dei neuroni-specchio come base neurofisiologica dell’empatia [Giacomo Rizzolatti e coautori: 2, 3], che ha un ruolo determinante nella comunicazione e nel pensiero umano.

La capacità di “pensare la mente dell’altro” è la caratteristica fondamentale del pensiero umano, e inizia qui. La relazione tra l’infante (il nuovo soggetto “io”) e la madre (“tu”), nei primi mesi successivi al parto, è la relazione primaria che produce un nuovo soggetto.

La formazione del nuovo soggetto, “io”, parte quindi da un processo di relazione attiva che prepara l’individuazione e il riconoscimento dell’altro polo della relazione: “tu”, la madre.

E il riconoscimento di “te”, madre, precede, permette e determina la formazione di consapevolezza di sé da parte del nuovo soggetto “io”, infante.

Il nuovo soggetto solo a questo punto e solo grazie a questo può iniziare a diventare tale.

Questo avviene con un graduale processo dialettico, in cui si alternano e coesistono identificazione e distinzione.

Si tratta, certo, di una relazione particolare: dal punto di vista del nuovo soggetto, l’infante, questo processo produce consapevolezza primaria, ovvero fonda l’identità. Il processo si completa nel riconoscimento, anche da parte della madre, dell’identità soggettiva dell’infante, come nuovo soggetto, con un’identità propria.

Si tratta, anche, però, della relazione più generale: la relazione primaria tra l’infante (“io”, “Sé”) e la madre (“tu”, “l’Altro”) fungerà poi da modello per tutte le relazioni e i processi di consapevolezza successivi.

Riferimenti

  1. Cristina Trentini. Rispecchiamenti – L’amore materno e le basi neurobiologiche dell’empatia. Il pensiero scientifico editore, 2008.

  2. Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia. So quel che fai – Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Cortina, 2006.

  3. Giacomo Rizzolatti, Antonio Gnoli. In te mi specchio – Per una scienza dell’empatia. Rizzoli, 2016.