Hannah Arendt (con Socrate e Kant) distingue tra due aspetti della coscienza, o due diversi concetti di coscienza, e fa riferimento a due termini in inglese: consciousness, coscienza intesa come “consapevolezza” di sé, degli altri, della realtà oggettiva, del mondo; e conscience, “coscienza” intesa in senso morale, come capacità di distinguere il bene del male, e di scegliere il bene.
La riflessione di Arendt fa riferimento al sovvertimento dei valori morali operata in Germania durante il Nazismo, e in particolare all’incapacità generalizzata dei singoli cittadini tedeschi di rifiutarsi di collaborare alle persecuzione delle vittime. E si interessa delle eccezioni, e delle motivazioni degli uni e degli altri. Questo è un problema che si sono posti e hanno affrontato lucidamente anche Primo Levi (già in Se questo è un uomo, scritto nel 1946, nel racconto Vanadio e nella sua ultima opera I sommersi e i salvati) e Zygmunt Bauman. Il caso del Nazismo, pur con tutte le sue specificità, costituisce un riferimento importante, proprio perché è stato un fatto reale, operato da esseri umani nei confronti di altri esseri umani. E a differenza di altri crimini di massa attuati nella storia (recente e meno recente), è stato studiato con particolare attenzione e lucidità da chi ha saputo affrontarlo, non come anomalia, ma come fenomeno “interno” alla modernità europea: indagando in particolare sui processi mentali dei carnefici e dei loro collaboratori più o meno “grigi”.
In queste note si è finora individuato il fondamento relazionale dell’acquisizione di coscienza “filosofica”, cioè di consapevolezza (consciousness) da parte di un soggetto nel corso della sua formazione. Si è evidenziata l’importanza della relazione primaria infante–madre per la costruzione di un modello di relazione io–tu che permette di fondare la costruzione dell’identità propria di io–soggetto in relazione (riconoscimento, identificazione e distinzione, attrazione e contrasto) a te–altro: in origine, appunto la madre. La relazione primaria è poi replicata e sviluppata nei confronti della realtà oggettiva, degli altri, del mondo, via via producendo coscienza – intesa come consciousness.
Si tratta ora di capire cosa ciò può avere a che fare con lo sviluppo della coscienza morale, ovvero della conscience.
Ogni passo della sequenza di sviluppo della consapevolezza individua una relazione tra il soggetto in evoluzione e un interlocutore, a cominciare dall’interlocutrice primaria, la madre.
L’idea è che la coscienza, intesa come conscience, nasce dal provare a dare ascolto, ovvero a dare importanza, ovvero a rispettare e a prendere sul serio l’interlocutore che fonda la consciousness.
Di volta in volta: Tu, Io, Realtà, Voi, Mondo.
In questa nota sono presi in esame i primi due, ovvero “Io” e “Tu”.
Io
Se io esisto come soggetto, provo a prendere me stesso sul serio.
Provo ad ascoltare ciò che ho da dire.
Questo è esattamente il meccanismo del dialogo interiore con l’altro sé secondo H. Arendt (che fa riferimento per questo a Socrate e Kant).
Quando un soggetto diventa consapevole di esistere comincia a comunicare con se stesso. Ovvero, viceversa: quando comunico con me stesso so di esistere.
Anche in questo caso il modello è quello della comunicazione con “te”, l’altro soggetto.
La comunicazione con se stessi può arrivare a prendere la forma di un dialogo, il dialogo interiore: ciò significa fare uso della lingua (parlata, anche se non necessariamente pronunciata, o scritta).
Arendt cerca e propone una base (che definirei operazionale) del meccanismo morale. Io so che, se compio un crimine, poi dovrò vivere per tutta la vita con un criminale: me stesso. Ovvero, anche: io-criminale dovrò vivere con l’altro me, “giudice”, che mi disprezza per ciò che ho fatto. Per questo motivo posso riuscire a fermare me stesso, prima di attuare un crimine (o prima di obbedire a un ordine criminale): “non posso farlo”, perché non potrei continuare a vivere con me stesso se lo faccio.
Ciò che invece spinge un soggetto a un crimine può essere non solo una pulsione o un calcolo di interesse, ma anche una pressione sociale, come discusso dalla stessa Arendt e da Bauman nel caso paradigmatico del Nazismo e dell’Olocausto.
Arendt mostra come il dialogo del soggetto con se stesso (ovvero: il mio dialogo con me stesso) sia ciò che porta Socrate ad affermazioni come: “meglio patire che infliggere il male”; “il tiranno è un uomo infelice”. E Democrito: “colui che commette l’ingiustizia è più infelice di chi la subisce”. E sottolinea l’importanza di evitare, per Socrate l’auto-contraddizione, per Kant il disprezzo di sé.
Tu
Qua rimane da stabilire, però, che cosa sia un crimine e cosa non lo sia. Cioè quando, in quali casi, l’altro me stesso cerca di fermarmi, minaccia di giudicarmi. Ovvero quando io cerco di fermare me stesso: sono sempre io, e porto la responsabilità di entrambi i “me”.
Esistono indicazioni generali: i precetti morali che vengono dall’antichità, dalle religioni, dalla storia del pensiero, compreso il pensiero critico (critico cioè della relazione tra morale e potere). Ma, appunto: da un lato il problema della Arendt è che a volte, come nel caso del Nazismo, i precetti morali vengono collettivamente capovolti; dall’altro rimane il problema della loro origine.
I precetti morali, sebbene si propongano necessariamente come universali, non sono tutti uguali. E non tutti i crimini sono uguali. Alcuni precetti morali che vengono dall’antichità possono apparirci oggi un po’ troppo rigidi e fuori contesto. Inoltre, nel corso della storia, sono anche stati formulati precetti che prima non c’erano. E se guardiamo indietro nel tempo, in effetti tutti i precetti morali sono stati formulati a un certo punto della storia. Sono frutto di attività umana.
La stessa Arendt, che fa riferimento da un lato a Socrate, dall’altro ai dieci comandamenti e al Vangelo, sottolinea come il precetto è spesso definito in relazione a sé.
Ad esempio: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
A questo proposito, io non solo posso individuare un “altro me stesso” con cui dialogare interiormente, ma posso anche vedere “me stesso nell’altro”, come in uno specchio. E questo ci riporta alla formazione della consapevolezza (consciousness) in opposizione-relazione con te-altro
Affinché si formi la coscienza – conscience, devo prestare ascolto, prendere sul serio e dare importanza a me stesso: il mio interlocutore è l’altro me stesso.
Invece, per attuare, o agire, la conscience, ovvero per distinguere tra il bene e il male, il criterio è allora quello di prendere sul serio, prestare attenzione e ascolto, attribuire importanza e rispetto al mio interlocutore primario, ovvero a te/altro, che non solo mi rifletti, come in uno specchio, e sei quindi la condizione della mia coscienza–consciousness, ma che addirittura mi fornisci il modello per l’altro me stesso, ovvero la condizione della mia coscienza–conscience.
Senza di te, io non esisterei.
Non potrei sapere di essere.
Non potrei dialogare con me stesso: non potrei pensare.
Di questo, io, con te/altro, sono in debito. Un debito di natura prettamente morale.
Dare importanza a te.
Nella relazione primaria, quella tra madre e infante, i soggetti sono due, e anche gli interlocutori sono due.
Io–soggetto ho questo debito con te–altro, sul modello del debito primario che ho con mia madre, perché anche a te–altro, che incontro, o con cui mi scontro successivamente nella mia vita, “devo” parte della mia identità, della mia stessa esistenza come soggetto consapevole.
E sul modello della relazione con te-madre, io, proprio in quanto ex-infante, posso – e a un certo punto devo – scambiarmi con “te”.
E quindi diventare madre.
Se “io” sono donna, è possibile, anche se non certo, che “diventare madre” possa a un certo punto essere una condizione reale.
Ma anche senza diventare effettivamente madre, ovvero, in particolare, anche se “io” sono uomo, è naturale, appropriato e produttivo di consapevolezza (consciousness) e di coscienza (conscience) mettermi al tuo posto di madre.
E quindi sviluppare e valorizzare la mia capacità di empatia.
Questa facoltà, radicata nel cervello di tutte e di tutti, codificata dall’evoluzione nel nostro hardware neurale, e particolarmente potenziata nel cervello di una neo-madre a partire dalla gravidanza fino ai primi mesi dopo il parto /la nascita, è la capacità che permette a me – a ciascuno di noi, a tutte e a tutti – di mettere me stesso al tuo posto.
E di mettere te al mio.
Questa è la base, il fondamento autentico della morale.
Limiti
La capacità di vedere se stesso nell’altro e di mettersi al suo posto è probabilmente il più autentico fondamento della morale. Ma non basta di per sé a garantire il bene.
La capacità di – l’attitudine a – vedere se stesso nell’altro può essere anche l’origine del disprezzo o dell’odio.
Quando uno, nell’altro, vede se stesso, può non piacergli affatto quello che vede.
Il dialogo con l’altro sé costituisce l’attività del pensare ed è probabilmente l’unica possibilità di esercitare un giudizio morale su di sé, e di fermarsi dal compiere un crimine quando c’è una spinta a farlo, in particolare costituita da pressioni del proprio contesto sociale – anche istituzionale, in certi casi.
Esistono però due problemi di difficile soluzione, ovvero il problema della reiterazione, e il problema dei minions.
Reiterazione
Un soggetto può fermarsi, e astenersi dal compiere un atto criminale, o un atto profondamente immorale se, seguendo Arendt, “pensa”. Ovvero: dialoga con “l’altro sé” e conclude che “non può farlo” perché “non potrebbe vivere con se stesso altrimenti”.
Chi ha già compiuto un atto del genere, però, può aver già trovato un modo di convivere con se stesso.
Costui, cioè, ha già dimostrato a se stesso, ovvero all’altro sé, che di fatto “può” vivere con se stesso dopo il suo crimine.
Magari vive male.
Ma, appunto, può scoprire: non poi così male: basta – appunto – non pensarci.
Il che equivale a sopprimere l’altro sé, che, scomparendo, dimostra amaramente di avere avuto ragione: non può più vivere con se stesso. Ma intanto scompare.
Lo stesso meccanismo morale, il pensare dialogando con l’altro sé, quando è stato neutralizzato una volta, può rivelarsi quindi meno efficace.
Un argomento anti-morale contro l’altro sé può essere il seguente. Se mi fermo, ora, dal fare questo, perché disprezzerei me stesso se lo facessi, allora dovrei in effetti già ora disprezzarmi, perché l’ho già fatto in passato. Ma non voglio disprezzarmi per il passato: è intollerabile! E il passato non lo posso cambiare. Quindi non mi fermo nel presente. E procedo con il nuovo crimine.
Questa intollerabilità è simmetrica, in modo inquietante, con l’intollerabilità del “non poter vivere con se stesso altrimenti” in futuro che costituisce il meccanismo che permette di fermarsi, ovvero di astenersi dal compiere un crimine.
Minions
Se il problema è quello di “non poter vivere con se stesso altrimenti”, un criminale, o un corrotto, tende, potendo, a circondarsi di altri soggetti che si dedichino ad approvarlo, e così facendo gli dimostrino, nella pratica quotidiana, che invece, loro, possono.
Il problema è che purtroppo capita che li trovi.
Riferimenti
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Hannah Arendt. Responsabilità e giudizio. Einaudi.
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Hannah Arendt. La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme. Feltrinelli.
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Primo Levi. Se questo è un uomo. Einaudi.
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Primo Levi. Il sistema periodico. Einaudi.
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Primo Levi. I sommersi e i salvati. Einaudi.
-
Zygmunt Bauman. Modernità e Olocausto. Il Mulino.
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